venerdì 22 agosto 2014

quaderni piacentini

Il Sessantotto? Incominciò sui "Quaderni piacentini"

Di sinistra ma non dottrinaria, originale nelle analisi, spiazzante nei commenti: la rivista creata nel 1962 da Piergiorgio Bellocchio raccolse un gruppo di intellettuali che dettero la sveglia nell'Italia sonnacchiosa appena uscita dal "boom". Dimostrando che "si può essere seri senza essere noiosi"
di: 
Carlo Donati
Parma la capitale del Ducato, Piacenza la dama di compagnia. È una storia plurisecolare che periodicamente si ripresenta. Ci mancava il riordino delle Province. Eppure in tempi moderni ci sono stati momenti in cui Parma ha temuto la rincorsa di Piacenza. Due in particolare. Il primo quando Enrico Mattei annunciò la scoperta del petrolio, poi si trattava solo di metano, ma la leggenda della benzina Supercortemaggiore funzionò a lungo…; il secondo quando a Caorso fu costruita la più grande centrale nucleare italiana come il preannuncio di una travolgente modernità. Poi sappiamo come è andata a finire.
Tra il petrolio e l’atomo c’è però stato un altro momento in cui Parma subì l’ombra della città sorella. Niente di speciale, sembrava, cento grammi di carta forse meno. Una rivista, insomma. Per di più si chiamava Quaderni piacentini , una testata così casalinga da non lasciare intravvedere orizzonti lontani. Il primo e il secondo numero, marzo e aprile 1962, erano proprio mucchietti di fogli battuti e macchina e stampati al ciclostile. Sotto la testata una indicazione generica, “a cura dei giovani della sinistra”. Nessuno se ne accorse, tranne i pochi a cui era stata inviata. C’era anche un breve editoriale che, al di là dei progetti battaglieri, aveva una spina dorsale unica per i tempi. I Quadernivolevano dimostrare che “si può essere seri senza essere noiosi. Con allegria”.
Poi iniziò una cadenza più o meno regolare, bimestrale, formato standard in volumetto, cinquanta pagine, un po’ di colore al principio solo nel dorso come finta legatura, più avanti nell’intera copertina, rosso, verde, giallo, viola, azzurrino, lilla, arancione. Non era casuale, tanto per fare, poiché “di tutti i colori” cominciavano a mostrarsi anche i contenuti. Insieme a faccenduole locali apparivano interventi sulla fine della guerra d’Algeria, saggi su De Sade o Genet e le poesie del ferroviere piacentino Vico Paveri. Ma fin dal principio apparve la rubrica che fece scandalo, i libri da leggere e i libri da non leggere. Da non leggere tutto Kerouac, da leggere Musil, da non leggere Opera aperta di Umberto Eco, da leggere Memoriale di Paolo Volponi, da non leggere Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino. Ci fu poi una breve interruzione nella rubrica, qualche lettore scrisse che gli sembrava un atteggiamento fra il goliardico e il cattolico, peggio paragonava l’iniziativa proprio all’ indice dei film, il manifestino appeso alle porte delle parrocchie con le varie indicazioni, per tutti, per adulti, adulti con riserva, sconsigliato, escluso. Era uno schiaffo che bruciava, i redattori si fermarono un numero, ci pensarono e poi ripresero. Indubbiamente c’era arroganza e spocchia in questo modo di liquidare un libro, spesso senza averlo nemmeno letto, ma quelle quattro righe a numero servivano ad attirare lettori e nuovi collaboratori un po’ affascinati da quel radicalismo libertario. Anche i più agguerriti stroncatori del Gruppo 63 che facevano tremare i romanzieri italiani finirono sulla graticola. All’inizio le tirature non superavano le duecentocinquanta copie. I primi due numeri vennero spediti in omaggio a una serie di persone scelte per varie affinità. Al terzo numero i destinatari furono invitati a sottoscrivere l’abbonamento.
Il nome del direttore era comparso nel secondo fascicolo ciclostilato: Piergiorgio Bellocchio. Un trentenne conosciuto in città sia per il prestigio della famiglia sia perché era stato tra i fondatori di un circolo di sinistra che si chiamava “Incontri di cultura” dove si erano ritrovati altri giovani borghesi di varie provenienze, socialisti, comunisti ed ex comunisti, cattolici, radicali e libertari senza patria, impazienti di ascoltare qualche novità. Un gruppo molto eterogeneo che però funzionò, in una stagione di fine anni Cinquanta culturalmente dormiente, e non solo a Piacenza, portando in città intellettuali di rilievo, Franco Fortini, Danilo Dolci, Ernesto De Martino, Enzo Paci, Carlo Bo e altri poeti, filosofi, antropologi, letterati, allora sconosciuti ai più.
Quello era il sentiero. I Quaderni si affermarono quasi subito se non nelle tirature almeno nella circolazione. La rivista prese a pubblicare l’elenco delle librerie che avevano accettato di tenerne qualche copia persino in vetrina. Già a metà del 1963 le librerie era più di trenta, da Milano a Reggio Calabria, da Torino a Trieste, e naturalmente in Emilia, in quasi tutte le città, tranne una. Guarda caso era Parma. Non credo che Bellocchio e Grazia Cherchi, l’altra piacentina entrata nella redazione, anche lei borghese benestante e irrequieta, vedessero ancora Parma come l’usurpatrice del ducato. Credo piuttosto il contrario e cioè che i librai parmigiani avessero fatto spallucce, ancora prima di ascoltare di che cosa si trattava. Quaderni? piacentini?, ma va là, ci bastano le carte da briscola.
Redazione, tipografia, diffusione, abbonamenti. Si faceva tutto in casa dell’editore-mecenate, cioè lo stesso Bellocchio. Era morto il padre, famoso avvocato, e Piergiorgio il più grande dei figli si era ritrovato capofamiglia. Con i beni ereditati finanziò l’avvio dei Quaderni e l’anno dopo, per equità, contribuì alla produzione del film I pugni in tasca che segnò il debutto nella regia di Marco Bellocchio, uno dei tre fratelli. Degli altri due Alberto lavorava alla Cgil e Antonio era in magistratura.
Poco prima o poco dopo erano comparse altre pubblicazioni di sinistra, che sembravano ben più importanti ma che ebbero una vita brevissima, Quaderni rossi sparì dopo cinque anni, Classe operaia dopo pochi mesi. Piano piano invece la rivista piacentina vide lievitare le tirature, mille copie, duemila, duemilacinquecento. Tant’è che non di rado qualche scrittore ignorato faceva sapere che non gli sarebbe dispiaciuto finire anche sotto la mannaia della rubrica “da non leggere”. Qual era la ricetta? Boh, di preciso nemmeno i fondatori lo hanno saputo spiegare. Di sinistra, ma non dottrinari, criticissimi col Pci ma non anticomunisti, marxisti anarcoidi e persino liberali non lontani dalMondo di Pannunzio e dalla Rivoluzione liberale di Gobetti.
Secondo la vulgata il loro padre putativo sarebbe stato Franco Fortini. Ancora oggi si parla di una famosa “Lettera agli amici di Piacenza” del 1961 che sarebbe stata la base programmatica della rivista. Sarà, ma si tratta di un documento che sembra piovuto da un qualche comitato centrale e perciò quasi incomprensibile. In realtà quelli dei Quaderni rimasero tramortiti dalla personalità di Fortini, l’intelligenza, la cultura, la straordinaria capacità di lavoro, l’esperienza, le relazioni internazionali, i viaggi. Poi per fortuna fecero di testa loro e dopo qualche anno ci fu l’inevitabile parricidio.
E allora? Sfogliati a distanza di mezzo secolo i Quaderni, specialmente nella prima fase, conservano un pregio fondamentale e rarissimo nelle riviste politiche, si lasciavano leggere, chiunque appena un po’ al corrente dei tempi capiva ciò che c’era scritto senza arzigogoli ideologici o accademici. Quanto ai contenuti, oggi sembreranno scontati, tipo la rivoluzione culturale cinese, il Vietnam, Cuba e simili. Ma nessuno come loro aveva saputo raccontare la “new left” americana e i moti studenteschi all’università di Berkeley, oppure aveva aperto un dibattito sul turismo italiano in Spagna, domandando se la nuova moda fosse un aiuto al popolo minuto o un puntello per la dittatura franchista. C’era poi tutto un contorno di analisi e commenti anticonformisti, spregiudicati, a volte sprezzanti, ma quasi sempre spiazzanti. Per esempio un caparbio intervento sulla “licenza di uccidere” concessa alla Fiat a causa di certi difetti di fabbricazione che avrebbero reso oltremodo pericolosa la Seicento.
La pattuglia dei collaboratori si allargò man mano che la rivista cresceva. Fortini, Giudici, Solmi, Cases, Roversi, Jervis , Raboni e altri; superfluo dire che tutti scrivevano gratuitamente, così come i redattori lavoravano gratuitamente: ai letterati Bellocchio e Cherchi si era aggiunto Goffredo Fofi col suo corredo di sapienza cinematografica. Bellocchio in persona, direttore, editore e magazziniere, almeno nei primi anni girava l’Italia col baule della macchina pieno di pacchi, rappresentante di se stesso, a visitare le librerie e a proporre la rivista.
Ma perché , nel 1962, c’era bisogno di una pubblicazione così intellettualmente velleitaria e ribelle? L’Italia era ancora sotto l’effetto del miracolo economico, il “papa buono”, Giovanni XXIII, aveva avviato la riforma della Chiesa col Concilio Vaticano II, il presidente Kennedy e il leader sovietico Krusciov si erano parlati e Krusciov aveva ritirato i missili da Cuba, a Roma si era formato il primo governo di centrosinistra. Il mondo sembrava avviato alla pacificazione.
Dunque? Purissima intuizione, sguardo lungo e capacità di cogliere che qualcosa stava bollendo nella pancia del Paese e non solo. Era il Sessantotto. E i Quaderni piacentini lo anticiparono diventando il giornale del Movimento studentesco. Dalle tremila copie del 1965 è stato un crescendo. Se si affacciava qualche bilancio in attivo loro riducevano il prezzo di copertina. Quattromila, cinquemila copie, ottomila del 1968 e ancora oltre, dieci, dodicimila nei due anni successivi. Nel 1969, da buon radicale, Bellocchio prestò la propria firma legale di direttore responsabile, con adeguata serie di guai giudiziari, per consentire l’uscita di Lotta continua come fecero poi anche altri volontari, Pannella, Roversi, Pasolini, in nome della libertà di espressione.
Piacenza diventò il punto di riferimento e di incontro fra ciò che capitava sulla direttrice Roma-Milano passando per Bologna, capitale del comunismo dal volto umano, dove si stava concludendo la stagione del sindaco Dozza. Si diceva Piacenza per intendere via Poggiali 41, la storica sede dei Quaderni , oltre che casa di Bellocchio, senza trascurare l’importanza di adeguate osterie e trattorie nei dintorni. Che poi certe riviste siano nate e prosperate a tavola lo hanno sperimentato gli stessi bolognesi del Mulino.
Anche i librai parmigiani si erano rassegnati a tenere quella rivista. Piacesse o no alla “petite capitale”, la cugina povera era di nuovo sui giornali. Non in prima pagina come era accaduto col petrolio e come stava per accadere con l’atomo, ma in una sezione tutt’altro che di massa, la cultura, una nicchia di lettori, però forse più fastidiosa perché riguardava le élite intellettuali. Piacenza dava lezione. Scoprii la rivista grazie a un mio ex compagno di scuola, Giorgio Gennari, scomparso prematuramente, spirito curioso e irrequieto, giornalista, attore e poi tra i fondatori del Teatro Stabile di Parma e infine direttore del Teatro Festival. Ricordo la rabbia quando non riusciva a trovare il giornale, da una parte ammirato dall’altra irritato che qualcosa del genere mancasse a Parma.
Toccata la vetta delle dodicimila copie, mentre alcune frange del Movimento deragliavano verso la P38 anche i Quaderni cominciarono a perdere smalto, pur restando ancora la rivista più diffusa. Magari leggermente in ritardo nel comprendere che le Brigate rosse erano di sinistra, però si schierarono contro il terrorismo. Bellocchio peraltro non ha mai mancato di smascherare le cretinate dei finti operai e dei finti studenti ai tempi dei primi cortei violenti e più avanti ancora il sinistro cammino, di banalità in banalità, verso la lotta armata.
Nel frattempo, a metà anni Settanta, la rivista si riempì di professori universitari e delle loro analisi politiche, sociologiche, economiche, a scapito della parte letteraria, e si sa come scrivono gli accademici. Già in quel periodo Bellocchio propose di chiudere la partita. Ci fu una sospensione poi riuscirono a convincerlo nel proseguire fondando una piccola casa editrice, Gulliver, che pubblicò la rivista per un paio di anni abbandonando la storica sede per trasferirsi a Milano. Dopo di che intervenne un editore vero, Franco Angeli, specializzato in saggistica. Direttore già molto riluttante rimase Bellocchio. La rivista era diventata quasi un volume, dato che i fascicoli oscillavano attorno alle duecento pagine. Sfogliati oggi i numeri della nuova serie quasi non si distinguono dal Mulino, il che può essere un’insolenza o un complimento, dipende dal punto di vista. L’ultima uscita dei Quaderni fu il numero 15 del 1984. Un addio senza una lacrima.
Ormai l’imprinting del fondatore non c’era più. Soprattutto come organizzatore di cultura. Quanto al Bellocchio scrittore, nei ventidue anni della rivista, è stato ovviamente presente ma non come avrebbe dovuto e forse voluto. Come esempio basteranno due dei suoi interventi, uno dei primi o forse proprio il primo, e l’ultimo alla vigilia della chiusura. Il primo risalente al 1962 si può facilmente rileggere perché circola sul web. È il magistrale articolo che dedicò al suicidio di Marilyn Monroe interrompendo il piagnisteo di maniera della grande stampa che se la prendeva con il moloch Hollywood. L’ultimo, del 1984, mostra Bellocchio in forma smagliante. Si tratta di una invettiva, liberatoria e smodata, intitolata “Vecchi libri”. Solo l’incipit: «Nel mio odio verso tutto ciò che è “novità editoriale” – per il 99% porcheria inutile che viene prodotta unicamente perché esiste un’industria culturale, cioè per alimentare una macchina affinché produca altra porcheria – sfogo il vice impuni rileggendo, o leggendo per la prima volta, libri che già possiedo». Poi prosegue affermando che o rari acquisti li fa sulle bancarelle, nonostante anche qui il 99% della merce sia «porcheria, invenduta perché invendibile». Lo scrittore cinquantenne è pronto per una nuova rivista, che sarebbe arrivata l’anno dopo, si chiamava Diario , scritta interamente da lui e da Alfonso Berardinelli, un compagno dei Quaderni . Cadenza all’incirca semestrale, brevi racconti, saggi ispidi e beffardi, analisi amare e pessimistiche. Ma anche questa “si faceva leggere”. Qui Bellocchio , finalmente libero anche dagli amici, ricorda Karl Kraus e le sue spietate requisitorie contro l’establishment viennese pubblicate su Die Fackel (La fiaccola), la rivista che compilò per quasi trent’anni interamente da solo. Con la differenza che mentre Kraus metteva tutto al servizio della polemica, Bellocchio mette tutto, anche la polemica, al servizio della scrittura. Come direbbe Giorgio Manganelli che, nonostante le apparenze romane, era cresciuto non lontano da qui, a Roccabianca, le sue pagine si preannunciano con “il rumore sottile della prosa”. Bellocchio è un fior di scrittore, e un letterato, uno degli ultimi di coloro che sapevano spiegare la realtà meglio degli “scienziati”, categoria alla quale si sono iscritti abusivamente filosofi, storici, sociologi, economisti e altro ancora.
Fermo restando che a volte si fa amare a volte si fa odiare, la sua prosa limpida ti porta a seguirlo su qualunque strada persino in un burrone. Cesare Cases uno dei principi della critica letteraria arrivò in via Poggiali proprio perché attirato, anzi “folgorato” da quel giovane di provincia che “bagnava il naso” a loro, vecchi intellettuali, che si credevano gli ultimi custodi della “parola defunta”. Che cosa c’è dietro la scrittura di Bellocchio? Diverse cose, tra cui il talento naturale, ma innanzi tutto la vastità delle sue letture. Un aspetto mai messo in mostra. Occorre una minuziosa attenzione per rendersene conto perché quando gli sfugge una citazione sembra capitata lì en passant , senza parere. Ce n’è una per esempio nell’incipit di quell’ultimo articolo sui Quaderni , due parole scritte in corsivo, vice impuni . Così alla sprovvista, che cavolo sarà, italiano, latino o che altro? Scoprirlo è stato un buon esercizio. Del resto a un certo momento lui stesso ha dovuto ammettere che quando ha scelto quella testata casalinga non era un atto di modestia, ma scrivendo “quaderni” pensava ai Cahiers in francese, sempre quaderni, ma roba da intellettuali. Oltre ai Cahiers du cinéma , i più noti, ce n’è un’altra dozzina o più, in varie materie. Tutti figli dei “cahiers de doléances” con i quali cominciò la Rivoluzione francese.
Piacenza, credo di poter dire, ha bellamente ignorato a lungo questo concittadino. Non vorrei sbagliare, ma il quotidiano cittadino, la Libertà , ha aspettato addirittura che compisse gli ottant’anni, nel 2011, per dedicargli finalmente uno spazio adeguato. Forse è stata colpa anche dello stesso scrittore che ha voluto minimizzare e infine sperperare le proprie qualità. Per esempio quel pagare di tasca propria la possibilità di scrivere, ritenendo una bestemmia essere pagati per ciò che si scrive, è di un nichilismo e di una presunzione sfrenati.
Anche i libri che poi gli hanno richiesto i vari editori, dal primo I piacevoli servi(Mondadori, 1966) all’ultimo Al di sotto della mischia (Scheiwiller, 2007), li ha fatti con qualche pigrizia e quasi interamente confezionati con pagine già scritte e pubblicate su settimanali e quotidiani oltre a quelle dei Quaderni e di Diario . E sono tante, nemmeno lui sa quante.
Nel 2004 alla viglia del convegno per il ventennale, “Quaderni piacentini, 1962-1984”, alcuni fra i relatori chiesero di sfogliare gli archivi della rivista. E Bellocchio, più divertito che imbarazzato, rispose che non c’era niente. Mai steso un verbale, mai un ordine dei lavori, un progetto o altre quisquiglie; quanto alla corrispondenza, forse c’era rimasta qualche lettera chissà dove, ma per lo più era stato buttato via tutto.
Dunque che cosa c’è di sopravvissuto in via Poggiali 41? I cronisti favoleggiano di una casa-studio dove l’ex direttore, che a quanto so abita da tutt’altra parte, conserverebbe chissà quali tesori. Ma certo, migliaia di libri, ecco che cosa conserva. Un giorno ci sono andato apposta. È una strada anonima con un sentiero acciottolato al centro che vorrebbe ricordare il passato e un condominio enorme incastrato nella vecchia città. Ero disposto persino a suonare il campanello, da maleducato senza preavviso, ma non ho trovato tracce. Poi nel deserto della via ho incontrato un distinto e gentile signore che svoltava dall’angolo con via San Marco. A occhio, questo signore doveva essere già un giovanotto negli anni Sessanta, allora l’ho fermato e gli ho chiesto se abitava nei dintorni, mi ha detto di sì. Così gli ho domandato se aveva sentito parlare dei Quaderni piacentini. Si è mostrato interessato, ci ha pensato su, poi mi ha suggerito di rivolgermi alla cartoleria là in fondo all’incrocio con via Garibaldi, là li avrei trovati di sicuro i quaderni.
Piergiorgio Bellocchio
Piergiorgio Bellocchio

fonte: www.infinitetracce.it

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