venerdì 4 luglio 2014

boom economico, emigrazione, conseguenze




IL «BOOM» ECONOMICO DEGLI ANNI '60

Il «miracolo economico» Italiano . Nel periodo che va dal 1953 al 963 un impetuoso e veloce sviluppo industriale trasformò in Italia il modo di vivere, le abitudini della popolazione, l'aspetto delle città e il paesaggio.
Si parlò allora di un «miracolo» perché nessuno aveva previsto uno sviluppo simile, nonostante le indubbie capacità di ripresa mostrate dall'economia italiana negli anni del dopoguerra.
Questa fase viene chiamata anche boom, termine inglese che indica appunto, nel linguaggio giornalistico, un momento di rapida espansione economica.
Nel 1950 la produzione industriale aveva superato, per la prima volta dopo la guerra, i livelli raggiunti ne1 1938.
La ripresa era quindi confermata dai dati, ma l'Italia era ancora un Paese in cui l'agricoltura assorbiva il 44% degli occupati, l'industria il 29% ed il terziario il 27%.
Nel 1958 avvenne il sorpasso da parte dell'industria e già nel 1960 il terziario era il settore che contava la maggior percentuale degli occupati. È evidente, perciò, che nel giro di pochi anni l'Italia assunse la struttura delle società più avanzate.
Molteplici fattori furono alla base del «miracolo economico»:

- Una ampia disponibilità di manodopera: infatti era elevato sia il numero di disoccupati sia il numero di emigrati dal Sud che potevano essere assorbiti dall'industria;
- I salari relativamente bassi, che perciò incidevano poco sul costo de1 prodotto finito; -
- I prezzi bassi delle materie prime di cui l'Italia, basata su un'industria di trasformazione, aveva bisogno;
- L'adozione di tecniche avanzate «copiate»da altri Paesi che le avevano per primi elaborate e sperimentate, sostenendo quindi il costo della ricerca.
Occorre poi aggiungere la spinta data allo sviluppo dal desiderio di tante persone, appartenenti a tutti i livelli sociali, di raggiungere il benessere, lasciando alle spalle gli anni difficili e bui della guerra.

I prodotti dell'industria nella vita quotidiana degli Italiani

I settori più dinamici furono quelli che avevano ricevuto aiuti consistenti negli anni della ricostruzione:il settore metallurgico, quello meccanico e quello chimico.
I prodotti di queste industrie, di buona qualità ed a prezzi competitivi vennero esportati in misura massiccia.
A giudizio di molti storici ed economisti la crescita delle esportazioni fu soprattutto dopo il 1958 ,un elemento determinante per lo sviluppo di tutta l'economia.
La rivoluzionaria novità dello sviluppo industriale di questi anni fu la diffusione di quelli che si chiamano «beni di consumo durevoli» destinati ad una società di massa: automobili, motociclette, elettrodomestici.
Poiché i salari erano in aumento e l'inflazione era stabile (quindi i prezzi al consumo aumentavano poco), molti Italiani poterono permettersi beni di cui prima non immaginavano neppure l'esistenza.
I simboli del boom economico e del nuovo benessere furono i veicoli a motore, dapprima gli scooter, come la Vespa o la Lambretta, poi le utilitarie Fiat:la Seicento,a partire dal 1955, e la Cinquecento qualche anno più tardi.
Nel 1955 in Italia si contava un'auto ogni 77 abitanti, solo due anni dopo, nel 1957, un'auto ogni 39 abitanti.
A proposito della diffusione dell'auto negli anni del boom lo storico Valerio Castronovo parla di «silenziosa rivoluzione». Fu proprio lo sviluppo delle quattro ruote, infatti, a trasformare la mentalità e i comportamenti degli Italiani, nonché la fisionomia stessa del Paese.
Le fabbriche delle città del Nord attrassero milioni di persone provenienti dal Sud o dalle campagne,il cui inserimento non fu facile,anche perché mancò un adeguato piano di infrastrutture(servizi sociali,scuole, edilizia popolare) per la popolazione in crescita.
Nelle città iniziarono i problemi dovuti al traffico. Il paesaggio cambiò anche per la costruzione delle autostrade, il cui piano venne varato dal governo nel 1956-'57.
Non si può negare, comunque, che il boom stesse portando un miglioramento del tenore di vita degli Italiani. Pensiamo, ad esempio, a quanto diventasse allora più comoda la vita grazie agli elettrodomestici:
frigoriferi (ne vennero fabbricati 18.500 pezzi nel 1951, 370.000 nel 1957,portando l'Italia al secondo posto mondiale dopo USA e Giappone), lavatrici, televisori (le trasmissioni televisive iniziarono in Italia nel 1954).
Insomma, molti oggetti di cui noi oggi non sapremmo fare a meno entrarono cinquant' anni fa per la prima volta nelle case degli Italiani.
Una produzione industriale di queste dimensioni doveva essere sostenuta dalla disponibilità di fonti di energia. Progressivamente il carbone venne sostituito dal petrolio e dal metano.
Decisivo fu l'intervento dello Stato attraverso l'ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), istituito nel 1953, con il compito di promuovere ed effettuare ricerche nel settore degli idrocarburi.
Vennero scoperti e sfruttati importanti giacimenti petroliferi in Sicilia, a Gela e a Ragusa, e l'estrazione di petrolio passò, tra il 1952 ed il 1961, da nemmeno 18.000 a quasi 7 milioni di tonnellate. Il dirigente dell'ENI.Quanto al metano, nel 1951 la sua produzione risultava superiore di quasi venti volte a quella del 1946, grazie alla scoperta di importanti giacimenti a Cortemaggiore. Negli anni successivi l'ENI attuò ricerche nell'Italia peninsulare e insulare, con il risultato che tra il 1952 e il 1961 l'estrazione del metano passò da 966 milioni a 6,86 miliardi di metri cubi.
Tra il 1959 ed il 1961 vennero poi stipulati accordi con l'Unione Sovietica e altri Paesi per l'importazione di partite di greggio poiché la produzione interna non bastava a coprire il fabbisogno.
Il vero e proprio boom dell'industria meccanica fu reso possibile anche dallo sviluppo della produzione di acciaio: tra il 1956 e il 1959 il settore siderurgico ricevette un tale impulso che l'Italia, da Paese importatore, divenne esportatore netto, salendo all'ottavo posto tra i produttori nella graduatoria internazionale.
Fondamentale in questo senso fu il «Piano Sinigaglia» per la modernizzazione del settore, che puntava ad incrementare la produzione a ciclo integrale (cioè partendo dal minerale di ferro anziché dal rottame). Il settore siderurgico era controllato dallo Stato, che così ebbe una parte di primo piano nella promozione del boom economico.

 Primo decennio 1963-1973
 
. La prodigiosa espansione iniziata negli anni Cinquanta proseguì fino al 1963.A partire da quell'anno l'economia italiana entrò in una fase di depressione che si prolungò per circa un decennio.
La crisi mise in luce alcuni squilibri del processo di sviluppo verificatosi negli anni del boom:
- Il «miracolo»aveva toccato prevalentemente il Nord ed era stato possibile anche grazie all'immigrazione di manodopera dal Meridione;
- Lo Stato non aveva dato alle masse di popolazione concentratesi nelle città del Nord case, scuole, servizi adeguati;
- Il «miracolo» aveva interessato industrie tradizionali, mentre erano rimasti arretrati i settori ad alta tecnologia, come l'elettronica, che si andavano imponendo nel panorama economico internazionale.

Il meccanismo che innescò la crisi può essere così sintetizzato:
    - dalla fine degli anni Cinquanta la forza contrattuale delle masse operaie concentrate nelle fabbriche del Nord crebbe, e contemporaneamente si rafforzarono i sindacati: ciò determinò forti aumenti salariali;
    - le imprese reagirono aumentando i prezzi di vendita dei prodotti;
    - L'aumento dei prezzi provocò una forte inflazione: + 8,4% nel 1963;
    - gli investimenti delle aziende si ridussero, determinando un calo della produzione e un aumento della disoccupazione. Nel 1963 era stato raggiunto il minimo storico di disoccupazione dal dopoguerra, con il 3,9% della popolazione, poi la percentuale salì al 5,3% nel periodo 1964-'68.

Per rispondere alla crisi vennero adottate alcune modifiche nell'organizzazione del lavoro: venne esteso il lavoro straordinario e alcune lavorazioni vennero trasferite all'esterno e affidate a piccole imprese.
Si ebbe così una momentanea ripresa della produzione. Ma poiché questa era dovuta a un'intensificazione dei ritmi di lavoro più che ad investimenti in nuovi macchinari e attrezzature, ripresero più violente le lotte operaie a partire dal cosiddetto «autunno caldo» del 1969.
Nel periodo 1969-'73 si assistette in Italia ad una vera e propria esplosione degli scioperi.
Per spiegarne i motivi occorre tener presente anche il contesto storico e sociale. Tutto il Paese era in fermento, come dimostrano le lotte studentesche iniziate nel marzo 1968, che si inserivano in una contestazione in atto in molte nazioni europee. Si stava verificando una generale rivoluzione culturale mossa dall'aspirazione ad un radicale capovolgimento di valori.
Le lotte operaie furono lunghe e aspre. Le ore di lavoro perse per scioperi furono in totale, nelle industrie manifatturiere, 100 milioni negli anni 1960-'63, per salire a 171 milioni nel 1969-'73.
Vennero ottenuti cospicui aumenti salariali e conquiste legislative, che culminarono nel nuovo Statuto dei lavoratori approvato dal Parlamento nel 1970.
Nel 1973 un nuovo grave evento si abbatté sulla nostra economia: la grande crisi energetica provocata dal rialzo dei prezzi del petrolio deciso dai Paesi produttori in seguito alle guerre arabo-israeliane. Nel biennio 1973-74 il prezzo del greggio aumentò del 332%.
La crisi colpì gran parte dei Paesi industrializzati dell'Occidente e segnò un punto di svolta per le loro economie. Per l'Italia la situazione divenne critica, data la forte dipendenza dall'estero per l'approvvigionamento di fonti energetiche.

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IL «MIRACOLO ECONOMICO» NELLA VITA QUOTIDIANA DEGLI ITALIANI

Negli anni Cinquanta le macchine prodotte a ritmo vorticoso dalle industrie e diffuse sul mercato trasformarono la vita degli Italiani.
Nel brano che segue la giornalista Marta Boneschi ci offre un 'ampia carrellata su queste trasformazioni.
Lo stile conciso e incalzante della scrittrice rende bene l'atmosfera di ottimismo di un 'epoca in cui il «miracolo» avvenne «grazie a un impulso profondo, a un desiderio invincibile di farla finita con la povertà, al coraggio senza limiti di lavorare fino all'esaurimento delle forze, alla convinzione che una vita migliore è realmente possibile».
Uno dopo l'altro i prodotti dell'industria rendono piacevole la vita e lasciano sbalorditi per le loro virtù. Gli Italiani non si lasciano intimidire dalle innovazioni tecnologiche, e le assorbono con la stessa facilità con cui i bambini imparano le regole di un gioco sconosciuto.
Le novità più significative del' 50 sono due: la macchina da scrivere Lettera 22 dell 'Olivetti e una fibra, l'Orlon, che sostituisce la lana.
La lettera 22, disegnata da Marcello Nizzoli e colorata in tinte pastello, avrà vita lunghissima; quanto all'Orlon, è il primogenito di una ricca prole di fibre sintetiche e artificiali che le aziende chimiche continueranno a produrre, a prezzi sempre più convenienti.
Nel '54, poi, Giulio Natta, ingegnere della Montecatini, mette a punto il Moplen, un materiale duro,resistente e leggero, dal larghissimo impiego, che frutterà all'inventore il premio Nobel per la chimica e alla sua società una pioggia di denaro.
Fin dal' 50 le nuove tecnologie produttive sono entrate nelle fabbriche Olivetti, dove tra l'altro le macchine da scrivere e da calcolo vengono montate su nastri trasportatori continui. La ditta d'Ivrea vince anche la sfida delle calcolatrici meccaniche, finora vanto dell'industria americana, con la Elettrosumma, cui seguono la Multisumma e la Divisumma, tutte destinate agli uffici.
Nel '54 l'Olivetti è ormai un grande gruppo che dà lavoro a 14 mila persone. Nel '59 riesce a produrre il primo calcolatore elettronico italiano, Elea 9003, che regala al Ministero del Tesoro; il secondo esemplare lo compera invece la Marzotto.
Le macchine invadono beneficamente la vita: santa protettrice delle donne, l'industria le solleva dalle fatiche quotidiane; mentre al lavoro d'ufficio provvede, oltre alle macchine da scrivere e da calcolo, il «dittafono»2, che uccide lentamente la stenografia.
Nel '55 è la volta di Mirella, la macchina da cucire automatica della Necchi, anche lei disegnata da Nizzoli:
è un'altra prova che non solo gli Americani ci sanno fare (...).
Dagli Americani impariamo altre arti e tecniche, per esempio, i cibi in scatola. I.'Althea che confeziona a Parma il Sugoro è, a detta di Piovene3,«tra le nostre belle industrie, organizzata non diversamente da quelle che ho veduto in America, con lo stesso scrupolo igienico, lo stesso studio sulla scelta degli ingredienti, lo stesso aspetto lucido di laboratorio».
A inventare macchine per risparmiare sul lavoro umano, gli Americani sono maestri e insegnano all'Europa come vendere senza commesse. Il primo supermercato apre a Roma nella primavera 1957 e nell'autunno s'inaugura quello milanese di viale Regina Giovanna.


L'INDUSTRIA PRIVATA: ADRIANO OLIVETTI ED Il SUO MODELLO DI «CULTURA INDUSTRIALE»

Negli anni Cinquanta i settori industriali più dinamici ed aperti al mercato internazionale dovettero affrontare un processo di riorganizzazione aziendale e modernizzazione tecnologica.
Il gruppo Olivetti rappresentò un modello in questo senso per le tecniche all'avanguardia che vennero adottate e per l'attenzione tutta nuova sia all'estetica della fabbrica sia al «design» del prodotto. Le macchine da scrivere e le calcolatrici Olivetti invasero letteralmente il mercato interno e quello internazionale.
La società di Ivrea era guidata da Adriano Olivetti (1901-1960) che fu anche promotore di iniziative di carattere culturale. Egli fu uno dei primi industriali settentrionali ad aprire uno stabilimento nel Sud.
Il brano che presentiamo è tratto dal discorso da lui tenuto nel 1955 agli operai del nuovo stabilimento di Pozzuoli, vicino a Napoli.
Questo stabilimento riassume le attività e il fervore che animano la fabbrica di Ivrea. Abbiamo voluto ricordare
nel suo rigore razionali stai, nella sua organizzazione, nella ripetizione esatta dei suoi servizi culturali e assistenziali, l'assoluta indissolubile unità che la lega ad essa e ad una tecnica che noi vogliano al servizio dell'uomo onde questi, lungi dall'esserne schiavo, ne sia accompagnato verso mete più alte, mete che nessuno oserà prefissare perché sono destinate dalla Provvidenza di Dio.
Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell'idea dell'architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno.
Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica. La natura rischiava di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l'aria condizionata, la luce artificiale, avrebbero tentato di trasformare giorno per giorno l'uomo in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza.
La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell'uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza.
Per questo abbiamo voluto le finestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente
l'idea di una costrizione e di una chiusura ostile.
Così oggi questa fabbrica ha anche un altro valore esemplare per il futuro del nostro lavoro nel Nord e ci spinge a nuove realizzazioni per creare nuovi ambienti che traggano da questa esperienza insegnamento per più felici soluzioni (...).
Lo sconvolgimento di due guerre ha spinto l'uomo definitivamente verso l'industria e l'urbanesimo.
Esso ha strappato il contadino alla terra e lo ha racchiuso nelle fabbriche, spinto non solo dall'indigenza e dalla miseria, ma dall'ansia di una cultura che una falsa civiltà aveva confinato nelle metropoli, negandola alle campagne del Sud.
Nacque così il mondo operaio del Nord in cui la luce dello spirito appare talvolta attenuata, in cui la spinta per la conquista di beni materiali ha in qualche modo corrotto l'uomo vero, figlio di Dio, ricco del dono di amare la natura e la vita (...).
L'uomo del Sud ha abbandonato soltanto ieri la civiltà della terra: egli ha perciò in sé una immensa riserva di intenso calore umano (...).
Ed ecco perché in questa fabbrica meridionale rispettando, nei limiti delle nostre forze, la natura e la bellezza, abbiamo voluto rispettare l'uomo che doveva, entrando qui, trovare per lunghi anni tra queste pareti e queste finestre, tra questi scorci visivi, un qualcosa che avrebbe pesato, pur senza avvertirlo, sul suo animo. Perché lavorando ogni giorno tra le pareti della fabbrica e le macchine e i banchi e gli altri uomini per produrre qualcosa che vediamo correre nelle vie del mondo e ritornare a noi in salari che sono poi pane, vino e casa, partecipiamo ogni giorno alla vita pulsante della fabbrica, alle sue cose più piccole e alle sue cose più grandi, finiamo per amarla, per affezionarci e allora essa diventa veramente nostra, il lavoro diventa a poco a poco parte della nostra anima, diventa quindi una immensa forze spirituale.
Per questo motivo, un giorno questa fabbrica, se le premesse materiali e morali intorno ai fini del nostro lavoro saranno mantenute, farà parte di una nuova e autentica civiltà indirizzata ad una più libera, felice e consapevole esplicazione della persona umana.

 
ALIENAZIONE E FRUSTRAZIONE: L'ALTRA FACCIA DEL MIRACOLO

Vediamo ora un 'analisi ben diversa, meno sorridente ed ottimistica, del «miracolo economico».
Il testo che segue, tratto da un articolo pubblicato nel 1963 dallo scrittore e giornalista Libero Bigiaretti, è assai significativo. Esso testimonia l'interesse degli intellettuali dell'epoca verso gli aspetti meno esaltanti della società industrializzata: un mondo in cui tutti devono possedere i medesimi oggetti di consumo, in cui il lavoro dell 'operaio è fatto di operazioni monotone e ripetute, in cui il paesaggio stesso è mutato tanto da essere irriconoscibile. Una notizia sull'autore: aveva avuto modo di conoscere bene la vita della fabbrica perché aveva lavorato per parecchi anni all 'Olivetti di Ivrea.
La posizione dell' operaio è cambiata. A parte che egli ha preso coscienza, collettivamente, della sua forza politica, egli è legato al lavoro da bisogni assai diversi da quelli dei padri e soprattutto dei nonni.
Nessun retore! parlerebbe più del «pane» come unico stimolo e fine del lavoro. La povertà di oggi non è meno ossessiva (o lo è di più) di quella di ieri, ma è determinata generalmente dalla mancanza di ciò che un tempo era considerato il superfluo, o addirittura dal possesso uniforme, impersonale, senza scelta, di quegli oggetti che egli stesso fabbrica e di cui nessuno può fare a meno.
Il livello dei desideri e delle necessità è salito, si è spostato, proprio per effetto della produzione industriale e del suo prodigioso e mostruoso moltiplicarsi, che esige una enorme dilatazione del mercato con l'appoggio di una pubblicità che fa leva sulla avidità del cosiddetto uomo-massa nei riguardi delle cose che hanno tutti gli altri.
Impersonale, nonostante la qualificazione e la capacità tecnica di base, è diventata anche la prestazione operaia, in particolare dell' operaio della grande industria:
lavoro parcellare, di minima specializzazione, lavoro automatico. Né occorre qui ripetere osservazioni già fatte e scontate sulla spersonalizzazione, la monotonia del lavoro operaio, che neppure la riduzione delle ore lavorative vale a mitigare, né tanto meno lo possono altri correttivi, tra cui quelli offerti dalla organizzazione del tempo libero.
Il panorama del lavoro è completamente cambiato, non meno di quanto sia cambiato l'aspetto e il volume del traffico cittadino. Nel corso della nostra vita l'ambiente si è modificato assai più di quanto non sia avvenuto nel corso delle generazioni precedenti.
Dalle cause, che conosciamo, cioè dalla produzione in grande serie, sorgono effetti che investono e condizionano
la nostra vita, di là dalla prestazione lavorativa a qualsiasi livello: il traffico cittadino assurdo e micidiale, la insalubrità,la dilatazione aberrante di suoni, rumori, immagini; l'artificiosità dei desideri e la convulsione del ritmo vitale, la solitudine, l'insufficienza dei vecchi schemi familiari, sociali ecc.

fonte: www.ettorepanella.com



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