sabato 3 dicembre 2016

Nidaa Badwan, 100 giorni di solitudine

sono a BookCity e alla Sala Buzzati del Corriere.
è domenica mattina, le 11.
sono venuta per sentirla parlare, la sua storia mi aveva molto incuriosita quando la lessi sul corriere un anno fa.
parla questa lingua pazzesca che è l'arabo, mioddio com'è dura, è un muro di vocali aspirate e aspre, a volte mi domando se ci sono delle parole dietro a quegli spigoli.
invece lei sorride e ride, è vestita di nero, si adatta al lugubre novembre, dice anche di essere stata malata a lungo a causa del clima italiano, invece colorata, seppure sola, era molto più bella.
di fatto bella è.
è un'artista.
le sue foto, di narrazione della sua scelta di sottrazione dal mondo, sono incredibili, caravaggesche a tratti ma, devo dire, in certe inquadrature, mi ricorda perfino Vermeer.
luce e colore, ombra e armonia.
oggetti semplici, macchina da scrivere, vestiti arrotolati, cipolle e uova, scale a pioli.
e lei.
una prigione di libertà, un atto politico anche se all'inizio dice: la politica non mi riguarda.
scansa, o forse non lo sa, la riguarda eccome, il suo è stato un atto politico, Ulrike Meinhof ce lo diceva: "il privato è politica, l'educazione dei figli è politica, le relazioni umane sono politica perché mostrano se l'individuo è libero o oppresso, se può agire in modo consapevole o no, se può agire liberamente o no".
qualcuno, semplicemente stupido, in sala mette in dubbio la sua veridicità: ma come, a Gaza le ragazze sono libere e felici. qualcuno, ignorante, alza la voce e aggredisce. vuoi vedere che loro sanno, noi sappiamo, e chi invece è nato e cresciuto a Gaza non sa? arroganza senza limiti, lei per un attimo si confonde, poi riprende, ha la sua narrazione da fare, oltre la stupidità umana. qualcuno, il giornalista inviato del Corriere in Israele, ricorda a questi geni che nei loro begli alberghi ci sono i privilegi, che il mondo visto dalla reception di lusso non è come quello delle strade della striscia di terra più sanguinaria e sanguinante della storia, turismo imbecille pieno di boria, di soldi, di supponenza.
Nidaa sa, sa quel che è lei, e le sue foto sono una testimonianza preziosa di una solitudine coraggiosa.






Gaza, la stanza chiusa
Gli autoritratti di Nidaa Badwan
di Davide Frattini

Il 19 novembre del 2013 Nidaa Badwan ha chiuso la porta della camera e non è più uscita per quattordici mesi. Il giorno prima i miliziani di Hamas l’avevano fermata mentre aiutava un gruppo di giovani a preparare una mostra. 
«Perché porti quei pantaloni larghi? Devi indossare il velo non quello cappello colorato di lana. Sei strana, chi sei?». 
«Un’artista». 
«Che vuol dire? Che cos’é un’artista e soprattutto che cos’é un’artista donna?». 
La stanza dell’isolamento, della prigionia autoimposta, è piccola nove metri quadrati, una sola finestra, una lampadina appesa ai fili elettrici. Le pareti sono colorate: adesso una è blu-verde oceano, quella di fronte coperta con un arcobaleno di cartoni per le uova. Cambiano come cambia l’ispirazione di Nidaa e soprattutto la luce naturale. «A volte devo aspettare ore per trovare i contrasti che sto immaginando», racconta. A quel punto lo sfondo è già allestito: strumenti musicali (un oud, una chitarra rotta), una vecchia macchina per scrivere, una cucitrice, gomitoli di lana, una scala di legno da imbianchino. Nidaa indossa il costume, risistema l’inquadratura e scatta: autoritratti dove il volto quasi non si riconosce, composizioni che a Marion Slitine, specialista francese di arte contemporanea palestinese, ricordano «le nature morte di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, i chiaroscuri di Caravaggio, le scene teatralizzate di Jacques-Louis David». Per Nidaa sono le uniche scene che vuole vedere. Non ha lasciato la stanza neppure durante i cinquanta giorni di guerra tra Israele e Hamas l’estate scorsa. La famiglia è scappata da questo villaggio nella parte centrale della Striscia e si è rifugiata verso la città di Gaza. La ragazza, 28 anni, è rimasta sotto i bombardamenti. L’opera realizzata in quelle settimane la mostra mentre si rovescia in testa un secchio pieno d’acqua e vernice rossa, un macabro «ice bucket challenge» per raccontare il sangue attorno a sé. «Questo spazio — dice mentre accarezza la macchina fotografica — mi ha dato la libertà che fuori non potevo trovare. Libertà dal grigiore e dalla bruttezza di Gaza, dall’assedio israeliano, dalle imposizioni degli uomini di Hamas». La prima foto che ha scattato sembra rivolta a loro: imbraccia l’oud e impone con il dito di piantarla a un gallo combattivo. La seconda ringrazia la madre che con il padre, i due fratelli, le tre sorelle non l’ha mai abbandonata: «Nei primi mesi di autoreclusione ho pensato di suicidarmi. La mamma ha cominciato a lasciare davanti alla porta, oltre al cibo, piccoli compiti: i pomodori da tagliare, un’insalata da preparare». Nell’inquadratura sbuccia le cipolle, piange. Alla fine di gennaio gli amici l’hanno convinta a uscire. Avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione della sua mostra «Cento giorni di solitudine», portata a Gerusalemme Est e in Cisgiordania dal Centro culturale francese. Gli israeliani non le hanno concesso il permesso di lasciare la Striscia, gli organizzatori hanno cercato di allestire un collegamento via Skype dalla sede a Gaza. Nidaa — nata ad Abu Dhabi dov’erano emigrati i genitori, tornati a Deir al-Balah nel 1996 — ha accettato: «È saltata l’elettricità, niente evento. Lo stesso problema a casa. Così uso la luce naturale: è più affidabile e non posso interrompere la relazione tra il sole e la mia stanza». Da allora ha lasciato la camera altre due volte. Quando è per strada adesso tira su il velo appena qualcuno si avvicina, porta gli occhiali scuri e tiene una mano davanti agli occhi: «Voglio guardarmi intorno il meno possibile per non rovinare le visioni che mi aspettano nella mia stanza».

(http://27esimaora.corriere.it/articolo/gaza-la-stanza-chiusagli-autoritratti-di-nidaa-badwan/)

fonte: https://nuovateoria.blogspot.it

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