lunedì 10 marzo 2014

i misteri del monte di venere

I MISTERI DEL MONTE DI VENERE DI DUCCIO CANESTRINI


Duccio Canestrini è sempre stato un antropologo eclettico e fuori dagli schemi; il suo ultimo libro, “I misteri del monte di venere“, sin dal titolo si presenta abbastanza singolare. Già, perché parlare della.. della… già – come evidenzia il nostro autore – il problema inizia proprio qui: come chiamarla? Superato l’empasse possiamo addentrarci in questo agile volumetto, di semplice lettura e molto accattivante. Affrontare una tematica un po' scottante come l’etnografia del sesso femminile ci proietta, per forza di cose, oltre la nostra cultura, perché ogni cultura l’ha inquadrato e indagato secondo propri criteri.
Lo scopo è ottenere una visione meno angusta, storicamente e ideologicamente meno condizionata, di ciò che le donne e gli uomini hanno costruito o hanno “combinato” in quella sfera sociale chiamata “sessualità“, e in particolare intorno al sesso femminile. Il filo conduttore del testo è indubbiamente storico ed evolutivo: si inizia dalla preistoria della vagina, documentandone l’archeologia e raccontandone i miti e il simbolismo così da essere traghettati dalla cultura popolare fino alle problematiche della contemporaneità. Il tutto declinato in tre sezioni: la prima dedicata ai miti e ai riti sessuali, la seconda alla cultura fisica del sesso femminile (dimensioni, mestruazioni, verginità) e la terza alla vagina “lavorata”, oggetto di tutta quella serie di azioni culturali che ne modificano l’aspetto e il significato (modificazioni, piercing e chirurgia estetica).
Come donna davo per scontato di saperne abbastanza, ma molto di ciò che pensavo di sapere era semplicemente scontato e non me ne chiedevo i motivi. Così, leggendo la prima parte del libro, rimango folgorata dal legame cibo-vagina. In particolare dal legame tra la fertilità della donna e la Madre Terra. Non a caso Canestrini ci riporta a un’antica usanza delle contadine dell’Est europeo che mostravano il sesso alle pianticelle di lino dicendo “Vi prego, crescete fino a questa“.
In altre regioni, italiane e non, la tradizione ci rimanda a dolci e pani a forma di pube. Nella Sicilia greca questi erano chiamati mylloi ed erano focacce di sesamo e miele in offerta a Kore e Demetra. Ma l’usanza di confezionare dolci e pani riproducenti gli organi sessuali femminili (anche maschili) è comune a tutto il mondo romano e si estende a tutto il Medioevo. In Francia, i pani a forma di vulva erano detti miches, parola che ci ricorda le nostre michette, dette anche spaccatine. Ancora in Sicilia troviamo la cucchia o cuccia, un pane composto da due metà unite. Mentre a Palmi, in Calabria, il giorno di Pasqua la ragazza dona al fidanzato un pane dolce tradizionale; ‘a cuddhura (dal greco kollura, focaccia) che ha la forma di un ferro di cavallo con il foro centrale chiuso da un uovo, simbolo bene augurale della vulva. Panificazione e sesso: il simbolismo dilaga felicemente, da millenni, nel nostro Meridione, e Canestrini ce ne racconta la storia.
La seconda parte del volume, oltre a narrarci la fisiognomica erotica del sesso femminile (nel nostro e altrui folklore), passando con leggerezza per il mito del punto G e il clitoride, mi regala la stupefacente storia del vibratore. Esterrefatta leggo che questo strumento nasce nei manicomi e negli ospedali psichiatrici per curare le donne affette da isteria (qualsiasi diagnosi essa significasse).
Non posso non sorridere, scuotendo la testa, alla notazione del nostro autore:
Fu un progresso straordinario: l’orgasmo clitorideo poteva essere ottenuto per davvero premendo un bottone, il che risparmiava un sacco di fatica a molti medici, che altrimenti dovevano masturbare manualmente le pazienti.
Si ride un p0' meno nell’ultima sezione del testo, quella dedicata – tra le altre cose – alle modificazioni etniche dei genitali femminili. Qui il tono scanzonato (ma mai volgare e superficiale) lascia il posto a una seria e attenta riflessione che indaga le importanti giustificazioni culturali che ne sono alla base. Non si tratta ne di avallarle ne di screditarle, a Canestrini preme soltanto inquadrarle culturalmente, senza etichettarle tout court come “barbarie”. Ma poi siamo proprio così sicuri che anche noi, in Occidente, non abbiamo avuto le nostre di “barbarie”?
Basti pensare che fino alla seconda metà dell’Ottocento (e per più di 10 anni) la cura dell’isteria, oltre che con il vibratore, era effettuata tramite l’asportazione del clitoride, e questo nella prestigiosa London Surgical Home. Una clinica definita da Isaac Baker Brown (il ginecologo inglese che ne era a capo) una “casa di accoglienza per gentildonne e signore rispettabili sofferenti di disturbi curabili chirurgicamente”. Qui la rimozione chirurgica del clitoride, e a volte anche la sua cauterizzazione con un bisturi rovente, era un cura anche per l‘incontinenza, la ninfomania, l’epilessia e per i casi di mestruazioni irregolari. Insomma, anche noi abbiamo avuto le nostre “usanze barbare”, forse coperte dal manto della cura medica, ma paradossalmente proprio nel secolo del trionfo della scienza.
Si tornerà a sorridere con un altro tipo di “lavorazione” del sesso femminile: il piercing, i parrucchini (!!!) e la chirurgia estetica. Vere e proprie modificazioni fisiche volte a uno sterile piacere dell’occhio e del corpo.
Concludo questa recensione lasciando a Merope Generosa, interpretata dalla magistrale Anna Marchesini, la parola. Un modo per sdrammatizzare un tema un p0' imbarazzante, ma che racconta bene la storia di quella magnifica ossessione che è il sesso femminile.
fonte: www.evoluzioneculturale.it

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